mercoledì, gennaio 27, 2016

Meglio Facebook o Hemingway?


Un paio di mesi fa ho disattivato il mio account su Facebook. Le ragioni sono molteplici, io le trovo tutte straordinariamente fondate e cariche di significato, ma non sto a elencarle perché temo che perderei subito i pochi lettori arrivati su questa pagina. Provando a riassumerle in un'unica frase, diciamo che avevo bisogno di uscire da un flusso di informazioni inutili che stavano usurpando il mio spazio, il mio tempo, le mie energie mentali. Se eravate miei amici su Facebook e l'aggettivo "inutili" vi sembra offensivo, vi chiedo scusa: ovviamente non mi sto riferendo a voi! Ma fate una prova: aprite il social, passate in rassegna i link, i commenti, gli status, le foto dei vostri contatti, suddivideteli tra quelli interessanti, quelli frivoli, quelli fastidiosi e quelli verso cui provate una sostanziale indifferenza. Le percentuali potrebbero sorprendervi. C'era qualcosa che non tornava nel dedicare la vita, una simile porzione della vita, a quel fiume di contenuti. Tra l'altro, svalutando invariabilmente qualsiasi informazione, man mano che si aggiungeva una all'altra: dall'immagine buffa al grido di dolore, tutto appiattito nell'infinito susseguirsi del flusso. 

Superati i primi cinque giorni di brividi e senso di alienazione sociale, gli effetti positivi hanno iniziato a farsi sentire. Su tutti, il recupero del tempo perduto. Al di là del giochino tra contenuti utili, frivoli e fastidiosi, non potete immaginare quanto tempo si liberi uscendo dal flusso! È una sensazione sconvolgente, sia perché contraddice una delle credenze più diffuse, martellanti e inesorabili della nostra epoca ("non abbiamo tempo, e non lo avremo mai più"), sia perché si sposa con lo sgombero di una quantità altrettanto imponente di spazio mentale. Da novembre non sento più parlare di marò, non ho litigato sul ruolo del film di Checco Zalone nella società contemporanea, persino la morte di David Bowie è scivolata via in un'atmosfera di sconfinata ma sobria gratitudine: consacrando ore alla bellezza della sua musica e giusto qualche minuto al rumore del cordoglio collettivo, via Twitter. 

Naturalmente, tutto quel tempo libero andava subito riempito. Che esseri umani noiosamente perfetti saremmo se non ricadessimo sempre negli stessi vizi? E qui entriamo in un terreno delicato. Sono sicuro che esistono infiniti modi più sani, piacevoli, divertenti e socialmente edificanti di quello che ho scelto io. Per esempio, si potrebbe fare più sport; oppure restituire all'amore quell'attenzione esclusiva sottrattagli tanto tempo fa, chissà perché; o addirittura scoprire che beneficenza e solidarietà hanno anche una dimensione più concreta di change.org. Ma non è che disattivare Facebook ti renda subito una persona migliore. Non esageriamo. Così, io ho scelto di leggere Hemingway. Tutti i suoi romanzi. E li ho letti in meno di due mesi. Con una passione, una gioia e una naturalezza che da queste parti non si vedevano da anni. Molti. Troppi.  

E qui arriviamo al vero motivo che mi ha spinto a scrivere queste righe. Che non è tanto decretare il vincitore tra Facebook o Hemingway (personaggio che tra corride, caccia grossa e maschilismo praticante oggi vivrebbe un'esistenza assai grama sui social network), bensì celebrare Werner Herzog. Ebbene sì. Colpo di scena! Date un'occhiata a questo articolo. Qualche giorno fa, presentando il documentario Lo and Behold: Reveries of the Connected World, il grande regista tedesco ha invitato ad abbandonare i social network e a dedicarsi alla lettura, partendo dai classici di... Hemingway. Cioè, Werner Herzog: una delle poche semi-divinità che ci sono rimaste, che suggerisce al mondo di fare esattamente ciò che tu - di tua spontanea e anche un po' casuale volontà - hai fatto poche settimane prima. Avete presente quella rara, magica, indescrivibile sensazione che si prova quando tutto torna