giovedì, gennaio 16, 2014

Il capitale umano (Paolo Virzì)


E' un inizio di 2014 folgorante per il cinema italiano. Mentre in America La grande bellezza di Paolo Sorrentino vince il Golden Globe e viene candidato agli Oscar, nelle sale è in programmazione uno dei film più convincenti che il nostro paese abbia prodotto negli ultimi anni: Il capitale umano di Paolo Virzì. E come viene accolto questo momento di grazia? Ovvio, con un po' di polemiche. A conferma di come – da Internet alla tv, dalla piazza al mercato – la discussione, ancor meglio se accesa, sia ormai rimasta l'unica forma d'espressione davvero attraente (nonché la più facile verso cui dirottare i propri sogni di visibilità-ergo-esistenza).

E' un peccato, anche per la dignità stessa delle polemiche e delle critiche, che se fossero formulate principalmente come confronto di idee più che come batteria da insulto, sarebbero un'ottima spezia per il pensiero. Ma ormai sono quasi sempre urlate, ignoranti, istintive, pretestuose. Come molte di quelle che hanno avvolto Il capitale umano, un film strumentalizzato in chiave politica persino da chi ammette di non averlo nemmeno visto. Quello di Paolo Virzì è tutto tranne che un attacco a una determinata area del paese (tra l'altro, location abbastanza logica e prevedibile: un film in cui la finanza gioca un ruolo importante, in Italia, dove ambientarlo se non vicino a Milano?). E' invece un ritratto più generale – corrosivo e frontale – della cancrena materialistica ed esistenziale che sta divorando l'intera società. A tutti i suoi livelli: dai grandi finanzieri ai piccoli spacciatori, dalla borghesia che sogna un arricchimento precox a un mondo culturale sempre più chiuso e stritolato dalla continua sponda tra le proprie superbie e mediocrità. Giocando un po' con le parole (senza dimenticare il lato ironico del titolo di Sorrentino) potremmo ribattezzarlo: La grande bruttezza. E si tratta di una bruttezza che pervade ormai tutto il paese e che si può tranquillamente espandere oltre ai confini e agli oceani (il film è tratto da un libro ambientato nel Connecticut). Insomma, altro che Brianza velenosa. 

Due parole sulla trama, per chi non la conoscesse. Ne Il capitale umano assistiamo in gran parte agli intrecci – sociali, economici, affettivi – tra due famiglie: i ricchi Bernaschi (il broker Giovanni, la bluejasminesca moglie Carla, il rampollo Massimiliano) e i rappresentanti del ceto medio benestante Ossola (l'immobiliare Dino, la moglie psicologa Roberta e la figlia Serena, nata da un precedente matrimonio di Dino). Galeotta è la liaison tra i figli, Massimiliano e Serena, che avvicina le famiglie e spinge Dino a entrare con 700.000 euro (chiesti in prestito a una banca) nel fondo d'investimento ad alto rischio gestito da Bernaschi. Tutto questo avviene nei primi minuti del film: il resto è una rapida spirale verso il basso che - intrecciandosi con un fatto di cronaca: l'investimento notturno di un ciclista e la ricerca del responsabile - coinvolge e travolge tutto (dai soldi agli affetti) e tutti (compresi altri coprotagonisti o comprimari: il giovane Luca, un grottesco consiglio d'amministrazione di un teatro locale, gli amici di Massimiliano, il collaboratore di un servizio di catering). 

Storicamente, è difficile che Virzì sbagli un film. Ma è altrettanto raro che riesca a uscire da quella sua dimensione – quasi protettiva – di simpatica e amara commedia all'italiana, nella quale si finisce spesso per rimanere tra satira e ironia agrodolce. Il capitale umano rappresenta un evidente salto di qualità, ambizione e spessore. Il film non ha praticamente nulla della commedia, se non alcuni automatismi comici derivanti da vizi e difetti umani: è un dramma che per alcuni personaggi sfocia nella tragedia, scritto in modo solido e convincente (con un incastro narrativo forse non originalissimo ma efficace, in cui la storia viene raccontata attraverso diversi punti di vista) e interpretato in modo ideale dall'intero cast (dagli attori più navigati, volti noti allo spettatore di cinema italiano dell'ultimo ventennio, a -  soprattutto - quelli più giovani e meno conosciuti). E' un'opera forte e in molti punti fa stare male, perché deve far star male: trasmette un'angoscia sul presente tanto penetrante, cupa, realistica quanto in grado di scuotere la coscienza e magari far sperare anche in un riscatto, difficilissimo ma non impossibile. 

Già, perché – pur serio e spietato – Virzì non chiude del tutto la porta della speranza. Il film si congeda con un piccolo spiraglio di luce ed è significativo che le poche briciole di calore sparse sullo schermo siano riservate alla nuova generazione. Soffocati dalla vacuità, dallo squallore, dalla debolezza (troppo spesso usata come alibi) dei grandi, i giovani mostrano già notevoli segni di cedimento – compiono sciocchezze, anche gravissime – ma non sono ancora del tutto perduti: resistono, scalciano, amano. Forse non è un caso che anche l'unico personaggio adulto non interamente fagocizzato dal lato oscuro e materialistico della società – la psicologa Roberta – sia quello che porta in grembo due germogli per il futuro. Quasi a volerci ricordare che alla fine, come sempre, ci sarà la riproduzione/sostituzione della specie. E forse, anche senza troppa evoluzione, sarà quella a salvarci.